Se nell'Occidente il 15 Agosto si festeggia l'Assunzione della Vergine, facendo coincidere nello stesso giorno la dormitio e l'elevatio (sebbene nella definizione occidentale l'assunzione non implica il trapasso), in Oriente i due eventi sono diversi e distinti. La Dormizione (sonno profondo/morte) è infatti collocata al 15 di Agosto, ma si ricorda l'ingresso nel Paradiso del corpo e dell'anima della Vergine sette giorni dopo, ovvero il 22 di Agosto. Tale suddivisione, in realtà, è presente anche in maniera latente nel calendario latino, tant'è che nella data del 22 di Agosto l'Occidente ricorda Maria col titolo di "Regina". Anche nella stesura del Rosario, vi è una separazione tra gli ultimi due Misteri. Al fine di comprendere il motivo di tale suddivisione è importante ricordare che le feste cristiane vengono fissate nel calendario in virtù di feste antiche o eventi celesti, non tanto perchè di esse sono la copia, ma per trarre da esse il significato didattico. Nel nostro caso, la data di riferimento è proprio il 22 di Agosto, giorno in cui il sole entra nella costellazione della Vergine. Il movimento astrale, che porta all'unione tra l'astro solare e la costellazione, così da unire e da far risplendere la Vergine di luce, è la degna raffigurazione celeste dell'unione paradisiaca tra il corpo glorioso di Maria e la natura del corpo glorioso del Risorto. Una unione di tipo sponsale, di colei che è Madre e Sposa, che permette di calcolare l'inizio delle "nozze", esattamente sette giorni prima (lo Shiva ebraico si trasforma da settenario di lutto a settenario di giubilo, esattamente come esiste nella Halakha il rapporto di sette giorni di festa per le nozze e di lutto per i defunti) ovvero il 15 di Agosto. Ciò che a livello sovrannaturale, mancante l'azione del tempo, avviene subitaneamente, la delicatezza didattica del mondo tardo antico e protobizantino ha fissato in giorni diversi. Ed è ciò che il Maestro di Cesi ha riprodotto nella sua celebre tavola, del primo Trecento. In una mandorla d'oro, il Cristo abbraccia teneramente la sua Madre. Leì è in un contempo, Madre e Sposa, Genitrice e Figlia. Si legge tutta la potenza della preghiera dantesca "Vergine Madre, Figlia di tuo Figlio". Vi è tra i due una affettuosità che profuma di sicurezza: la Madonna, dolcemente col capo poggiato sulla spalla di suo Figlio, sembra in Lui riposarsi, e il Cristo stesso la abbraccia con una affetto profondamente umano e che ha lasciato la ieraticità e la solennità inaccessibile della pittura precedente. Una dolcezza che attinge a quella umanità giottesca, una tenerezza di cui il Medioevo riluce, e che il mondo moderno ha voluto cancellare.
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E' un pomeriggio di un dolce autunno romano. Qualche vetrina verso Piazza Navona già si imbelletta delle luci natalizie. Seduta sulla scalinata di Sant' Agostino c'è una scolaresca, in attesa che il cancello della ringhiera si riapra. Un docente, nell'attesa, racconta la vita rocambolesca di Caravaggio, interrotto dal suono delle chiavi che una monaca armeggia per aprire il cancello e il portone della chiesa. Assieme ai ragazzi siamo pochi altri visitatori, forse qualcuno per la prima volta, che attendiamo di contemplare la Madonna di Loreto di Caravaggio. Non c'è molta gente. Sant' Agostino, infatti, è in posizione leggermente defilata rispetto alla piazza Navona e ha un po' di seguito in meno rispetto alla vicina San Luigi dei Francesi.
All'apertura della chiesa, nel buio di una serata di fine novembre, si illumina la cappella appena a sinistra. E' la cappella in cui trova posto l'opera. Ne scrive Giovanni Baglione, nella sua biografia del Caravaggio: " Nella prima cappella della chiesa di Loreto o Sant'Agostino, alla manca, fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale, con due pellegrini, uno co' piedi fangosi di deretano, e l'altra con una cuffia sdrucita e sudicia di deretano e per queste leggeriezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da ' popolani ne fu fatto estremo schiamazzo". Già, lo schiamazzo. A veder sull'altare non solo donna Lena, cortigiana assai nota nella città dei papi, ma soprattutto i committenti, il marchese Ermete e la madre, lì scalzi, con i piedi sporchi, a raffigurare tutti i pellegrini. Era, Ermete Cavalletti, funzionario papale, partito a piedi dalla sua Loreto per raggiungere la Città Eterna: dalla Casa di Maria alle Soglie degli Apostoli. E, una volta a Roma, aveva chiesto a Caravaggio di realizzare le pitture per la sua cappella funebre. Ed eccola la Madonna, popolana tra il popolo, poggiata allo stipite della sua casa, accogliere Ermete ed accogliere tutti i pellegrini che si recano da Lei in tutti i santuari del mondo. Qualche anno prima la realizzazione dell'opera, tra il 1604 e il 1606, Caravaggio aveva visto stuoli di pellegrini recarsi nelle basiliche romane in occasione del Giubileo. Aveva visto quei piedi sporchi per il cammino di tanti che avevano percorso le strade giubilari per cercare il perdono dei propri peccati. Nobili, popolani, ricchi e plebei si erano messi in viaggio dalle regioni più remote per varcare la Porta Santa ed essere ammessi in Paradiso. Ed eccola Lei, la Vergine, ad attendere sulla porta. La tradizione bizantina colloca spesso una icona della Madonna sullo stipite della porta di una laura accompagnandola con la preghiera Tἦρησoν Θεoυἦτηρ Kυριαkἦν Λἁνραν (Benedici, Madre di Dio, la casa del Signore). E "Casa del Signore" per antonomasia è la Santa Casa di Loreto, dove Gesù, secondo la tradizione, ha vissuto per la maggior parte della sua vita. Il marchese Ermete lascia la sua Loreto e, una volta giunto a Roma trova ancora Lei. Non una figura ieratica, sospesa tra le nubi come la tradizione ha sempre raffigurato la Vergine lauretana, ma una donna di città, solenne e aristocratica, ma al contempo comune, che apre la porta ed mostra il suo Bambino. Di fronte a questa immagine, il vociare dei ragazzi e dei curiosi presenti sembra far da sottofondo alla strada in cui i due pellegrini sono inginocchiati. Loro, i pellegrini, sono di spalle, primi tra tutti, e noi a seguire, a fissare lo sguardo su quella donna così bella, così lontana eppure così vicina. Gli "schiamazzi" di approvazione del popolo del Seicento, che fecero irritare il cardinal Borromeo che ebbe a dire che "queste cose piaccion alla moltitudine, la quale purtroppo si compiace delle cose peggiori. Il volgo ignorante in simili pittori ammira gli errori e non sa comprendere qualcosa di veramente bello", gli schiamazzi, dunque, sembrano confondersi con lo stupore di chi oggi ammira l'opera e, nel silenzio degli occhi la porta con sè. Nella Madonna di Loreto di Caravaggio, la "Madonna dei Pellegrini", ognuno compie un suo cammino. Al posto dei ragazzi vedo dinnanzi a me l'umanità della Roma dei Seicento, e i committenti, e i frati e i pellegrini e i curiosi e gli amanti dell'arte che si sono avvicendati nel corso dei secoli. Vedo la storia prendere forma e, nel chiarore della cappella nel buio circostante, si compie il mistero della vita, che supera, con la forza della Bellezza, il buio della morte. Alcuni anni fa, in occasione dell'inaugurazione di una importante pinacoteca di arte sacra leccese, interloquendo con Giovanni Gazzaneo, direttore della rivista "Luoghi dell'Infinito" ci si poneva il quesito sul concetto di "arte sacra". Cosa, cioè, si intendesse con questo termine e se è vero che tutta l'arte, in quanto tale, può definirsi sacra.
Nel mio intervento ebbi a fare una precisazione: ritenevo, infatti, che tutta l'arte, di qualunque tempo e soggetto avesse in sè il carattere "sacro". Difatti, la definizione di "sacro" riguarda "ciò che è separato, è altro, così come sono separati dalla comunità sia coloro che sono addetti a stabilire con esso un rapporto, sia i luoghi destinati ad atti con cui tale rapporto si stabilisce". L'arte, quindi, essendo fondata sulla necessità comunicativa, che implica pertanto una relazione, è soggetta alle regole della reciprocità che, per se stesse, non possono appartenere all'individuo singolo. Fa parte di registri "altri", universalmente riconosciuti e stabiliti con delle norme che restano inviolabili anche quando apparentemente se ne mette in discussione la validità (un'opera che esce "fuori dalle regole", di fatto assurge a regola il non considerare valide le precedenti). Ciò detto, appare evidente che a voler considerare nel senso lato di "sacra" tutta la produzione artistica umana, quando si tratta di opere che riguardano il mondo trascendentale delle divinità, e, nello specifico delle Verità rivelate del Cristianesimo, occorre scegliere un altro termine. Io mi permetto di usare un neologismo: parlo di agioarte. Un'arte, cioè, che trasuda di divino e che non è solo estetica pura, ma in ogni tratto, in ogni scelta di colore, in ogni elemento compositivo esplica la dottrina di riferimento. E' il caso di Giovanni Gasparro, noto pittore pugliese, che ha fatto della pittura religiosa un manifesto e compendio di ciò che la Chiesa Romana ha sempre creduto. E ciò lo pone sulla scia dei grandi dei tempi antichi non solo per la ricercatezza del tratto in cui sembra rivivere la mano di Mattia Preti o di Luca Giordano, ma soprattutto per la capacità di dare forma e visione ai dettami cattolici. E ben si può notare ciò nel San Michele Arcangelo. Colpisce innanzitutto la contestuale giovinezza e maturità del volto angelico: la giovinezza del Paradiso e la maturità della giustizia. Da un fondo dorato che richiama i cieli bizantini, Michele si staglia con corazza e schinieri cerulei e gli pteruges dorati, riccamente ricamati. E' un'apparizione solare, come raggiante è l'aureola. E' lui, Michele, il portatore della Luce vera, della potenza divina, e non Lucifero, che nel nome conserva solo il ricordo del suo splendore per aver scelto le tenebre. Il San Michele di Gasparro è psicopompo: misura con la bilancia il peso delle anime. E le vediamo lì le anime, sui piatti della giustizia divina, non gaudenti o festanti, sicuri di una accoglienza assicurata e senza meriti tra i salvati, ma terrorizzati, sospesi nell'attesa del verdetto che resta terribile. Perchè il giorno del Giudizio (particolare o universale che sia) è Dies Irae. "Quanto tremor est futurus quanto judex est venturus", recita la sequenza di Tommaso da Celano. "Quem patronum rogaturus, cum vix iustus sit securus?" si chiede ancora l'anima del fedele. Ed il terrore sospeso del giudizio diventa speranza per l'anima che sale verso l'alto, e disperazione per l'anima che scende verso il basso. Una bilancia che non è retta dalla mano dell'arcangelo, ma fluttuante, quasi ad indicare che è solo Dio l'unico amministratore della Giustizia. Ed è qui il vero potere di Michele: "Quis ut Deus?" sarà il grido di battaglia contro Lucifero e le forze infernali. Michele nella sua potenza e bellezza ha nel suo nome la totale devozione e sottomissione a Dio, e questa sua essenza atterrisce l'Inferno più di qualsiasi spada. Il San Michele di Gasparro ha la lancia degli stessi colori della sua armatura. Sembrerebbe che la lancia altro non sia che l'arcangelo stesso che trafigge, col suo sguardo, il male. E i demoni infernali atterriscono dinnanzi a quello sguardo e si nascondono alla sua luce e alla sua bellezza. Il serpente antico, il drago, sono un guazzabuglio di figure informi e urlanti, che manifestano in tutta la loro disperazione il dramma di una eternità senza Dio. Questo è ciò che la Chiesa ha insegnato ai suoi fedeli in due millenni attraverso i suoi Concili e il suo Magistero. Giovanni Gasparro, l'agiopittore, lo scrive con colori e immagini imbevute di divino che lo portano ad assumere nella storia dell'arte il posto che egli merita e che, sin d'ora, gli viene universalmente riconosciuto. Quando si entra nella basilica orsiniana di Santa Caterina d'Alessandria, a Galatina, si resta per un attimo estraniati. Una sequenza mirabile di affreschi riveste l'intero corpo di fabbrica con immagini e figure che, pur apparendoci familiari, in realtà ci esulano dallo stile prettamente locale. Infatti, la grande teoria di affreschi che accompagna il visitatore ad ogni suo passo fa riferimento alla tradizione santoriale della Terra d'Otranto, ma viene eseguita da maestranze di scuola giottesca e senese fatte giungere appositamente dalla contessa di Lecce e regina di Napoli, agli inizi del 1400, Maria D'Enghien. La regina, che ha ereditato dal marito Raimondello Del Balzo Orsini la contea di Soleto, e quindi Galatina, dove il marito ha fatto erigere la chiesa di famiglia affidata ai francescani di Bosnia, comprende la grande potenza dell'arte, sopratutto quella novità che i giotteschi introducono e che negli anni del suo regno sono particolarmente attivi a Napoli. E' proprio durante il regno angioino, infatti, che personaggi del calibro di Giotto si recheranno nella capitale partenopea per esaltare le glorie dei nuovi sovrani creando, altresì, uno stretto legame tra la nuova arte pittorica, il potere regio e gli ordini mendicanti. Non stupisce, quindi, che in questo contesto generale, anche una realtà locale come quella della contea di Soleto mantenga gli stessi standard venendo così a creare quella meraviglia che ancora oggi possiamo ammirare recandoci a Galatina. Un “vezzo” particolare che l'antica nobiltà aveva, era quello di far discendere la propria casata da uomini illustri, possibilmente legati ad eventi che avessero a che fare con Cristo o con gli Apostoli. Ciò per garantire non solo lustro e prestigio alla casata, ma per assicurare una sorta di garanzia di cattolicità ai pontefici romani i quali, è noto, erano coloro che, difatto, dispensavano il potere regio. La famiglia comitale di Soleto, sotto il cui dominio rientra Galatina, è una famiglia francese: i De Baux, italianizzati Del Balzo. L'assonanza del cognome, e le leggende della Provenza, regione da cui nasce la casata, hanno permesso ai Del Balzo di farsi discendere, addirittura, da uno dei magi: il Re Baldassarre. La tradizione agiografica vuole che il re Baldassarre, convertito al cristianesimo, si sia fatto battezzare dal diacono Stefano. E' per questo, probabilmente, che sempre Raimondello farà costruire la sua chiesa privata, su una preesistenza bizantina a Soleto, dedicandola proprio al santo protomartire. Per questo motivo, ciò che andremo ad analizzare nel grande palinsesto di affreschi della basilica orsiniana, sarà la scena dell'adorazione dei Magi, che troviamo nella navata di destra, dedicata alle storie della Vergine. In realtà, la scena della cavalcata dei Magi appare anche nella navata centrale, nella campata prossima al presbiterio, nella narrazione delle storie del Cristo, e già qui le maestranze pittoriche, di scuola giottesca, realizzano una scena particolarmente vivace, come una sorta di sequenza filmica in cui il corteo dei Magi che vediamo nella parte superiore della lunetta, si ferma poi al cospetto del Bambino con i re prostrati ed adoranti, e un servo che fruga in una cassa per tirar fuori i doni e gli omaggi. Nella raffigurazione che prendiamo in esame, invece, alla grande evidenza scenografica che viene data, si aggiungono dei caratteri squisitamente simbolici, che permettono una ancor più forte aderenza al racconto evangelico. Innanzitutto occorre premettere che l'unico vangelo che tratta dei Magi è quello di Matteo, il più antico tra i quattro. L'evangelista dedica alla vicenda dei Magi il capitolo 2, dal versetto 1 al versetto 12 e, potremmo dire, continua sulla stessa vicenda narrativa per l'intero capitolo, mettendo in relazione alla presenza dei Magi la reazione di Erode, che sfocierà nella strage degli innocenti, e la conseguenziale fuga e ritorno dall'Egitto, concludendo, in tal modo, la narrazione dell'infanzia di Gesù. Al netto dell'episodio storiografico, ciò che interessa all'evangelista è la dimostrazione che il Messia, essendo nato a Betlemme, è vero discendente di Davide, e pertanto pretendente legittimo al regno di Giuda e delle promesse divine, tant'è che Erode ne teme per il trono. Allo stesso tempo Matteo già indica che il regno del Messia non consta di poteri politici ma è un regno universale, tanto da portare genti – sarà la tradizione successiva ad identificarli come re – che vengono da fuori Israele e che anzi appartengono ad altre religioni ad adorare l'unico e vero Dio incarnato. I magi, difatti, erano sacerdoti zoroastriani. Probabilmente col termine avestico “mogu” si possono intendere i discepoli diretti di Zarathustra, dediti allo studio dei segni celesti e a rigorose pratiche ascetiche. Nel momento in cui si scrive il primo vangelo, i Magi sono quanto di più lontano possibile dall'ideale del cristianesimo, poiché la cultura romano-ellenistica già stava iniziando a mostrare le sue assonanze con la predicazione di Paolo. I Magi, invece, erano talmente “altro” da non poter lasciare dubbio alcuno sulla loro professione di fede. Proprio questa evidenza è riportata nella sequenza di Galatina, dove il pennello, questa volta, segue lo stile della scuola senese. La Vergine in trono col Bambino sulle ginocchia è in una sontuosa casa. I drappi alle pareti e le strutture architettoniche che la realizzano denotano tutta l'importanza della famiglia di Nazareth. Già da queste prime caratteristiche strutturali appare evidente la sottolineatura della dignità regia del Figlio di Davide, e la sua gloria di Figlio di Dio. La Madonna sostiene il Figlio, sembra ne faccia da trono, recando in una mano un fuso, simbolo della sua dignità materna. San Giuseppe, posto in disparte, lo troviamo abbracciato ad una colonna della casa. Ora, considerando la struttura architettonica simbolo della casata davidica, in questa sequenza d'affresco ben si legge l'importanza di Giuseppe il quale, abbracciato al pilastro è costituito “de domo David”, e accoglie nella sua casata la moglie, la Santa Vergine che, a sua volta, è l'unica artefice della nascita carnale del Bambino, raffigurata dal fuso intatto. Ai piedi del Bambino si prostrano i Magi. La scelta figurativa è estremamente valida, permettendo di cogliere un movimento tra i personaggi che non appaiono statici e asserviti alle logiche pittoriche. Il re più anziano è già inginocchiato, ha tolto i paramenti regali, che sono sostenuti dall'inserviente alle spalle, e bacia i piedi al Bambino. Il re più giovane è nell'atto di dismettere il mantello, mentre un servo già gli toglie la corona, i terzo è ancora con i paramenti reali ma è appena nell'atto di aprire lo scrigno per mostrare i suoi doni. Dietro ai re, una folla di cavalli, cammelli e inservienti sono intenti a trasportare e scaricare altri bauli e scrigni. In fondo si intravede una città fortificata, simbolo della Gerusalemme terrena, del regno di Erode, a cui si contrappone la Gerusalemme Celeste del regno del Messia. Nella visione dei Magi colpisce la forma delle corone: le cuspidi gigliate richiamano nettamente il giglio non solo angioino, ma soprattuto l'emblema della Provenza, da cui i Del Balzo provengono. Il messaggio che viene dato è inequivocabile: i potenti signori venuti dalla Francia si spogliano delle loro insegne per rendersi umili al cospetto del Dio Bambino. Anche loro, facenti parte di un popolo che si è convertito tra gli ultimi, portano la loro “diversità” all'interno della “cattolicità”, e ne diventano parte integrante. Anche loro, come i magi, riconoscono nell'umanità del Bambino, sottolineata dalla presenza della Madre, la consustanziale presenza divina, aderendo a tutti i dogmi cristologici che, sopratutto in quell'epoca dilaniata dall'eresia gnostica, ariana e albigese, la chiesa cattolica romana difendeva strenuamente, anche grazie agli ordini mendicanti. L'affresco dei Magi di Galatina ci ricorda sopratutto che esiste un rapporto univoco tra il Cristo uomo, nato a Betlemme, e il Cristo mistico, che sussiste nella chiesa cattolica. L'etimologia della parola “cattolico” racchiude in sé un movimento centripeto: un movimento che da tutte le parti converge verso l'unità, che è il Figlio di Dio. E' ciò che fanno i Magi, dando già l'immagine di questa cattolicità. Ed è solo nella chiesa cattolica che, recita il catechismo, sussiste la vera chiesa di Cristo. Dice una massima antica che “sine ecclesia, nulla salus”, “senza la Chiesa non c'è salvezza”, In questa cattolicità i Magi, sono stati chiamati dalla luce dello Spirito Santo e hanno abbandonato i loro culti per riconoscere l'unico e vero Salvatore del Mondo.
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