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L'Italia e l'economia della Cultura. Le radici del problema.

22/2/2018

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E' da qualche giorno stata resa nota una classifica che riguarda il numero di occupati nel settore culturale in Europa. Di questa notizia si è occupato Mario Di Cionno su Repubblica del 20 febbraio scorso analizzando i singoli dati. L'Italia, col suo 3,4% del totale di occupati nel settore si posiziona al 19° posto sui totali 28 Paesi, compreso il Regno Unito. L'analisi di Di Cionno poneva come premessa la constatazione del "paradosso" italiano: com'era possibile una percentuale così bassa in un Paese che più di tutti si distingue per opere artistiche, siti naturali e patrimonio culturale? Una domanda legittima che pone alcune riflessioni. Innanzitutto prima di analizzare nello specifico il dato italiano, concentriamoci per un attimo sul grafico in generale. Notiamo che i Paesi di grandi e antiche tradizioni artistiche e culturali (Francia, Grecia, Portogallo) sono tutti al di sotto del dato italiano. La Spagna si colloca prima dell'Italia, ma per un soffio. Al contrario, tralasciando per un attimo i Paesi del nord Europa, chi fa meglio di noi sono, manco a dirlo, Germania e Regno Unito. A farla da padrone sono paesi come l'Estonia, l'Islanda, la Norvegia, il Lussemburgo, la Svizzera, che pur avendo straordinarie culture e ampia stratificazione artistica, tuttavia non posseggono "numericamente" una quantità di siti culturali che possa paragonarsi a quella italiana.  
Da dove deriva questo assetto, dunque? Proviamo a fare un'analisi. Sembrerebbe che i Paesi da cui nei secoli si sia prodotto un  movimento forte di inculturazione dell'Europa si stiano lentamente spegnando. Sembrerebbe che vi sia uno scollamento tra la gestione della cultura e la reale potenzialità che essa può offrire. Tale dato appare ancora più disarmante nei confronti dell'Italia in cui il Patrimonio culturale stride in maniera violenta con il dato indicato. A questo punto, una domanda è d'obbligo: siamo sicuri che il problema risieda solamente nella "cattiva gestione" del patrimonio? Oppure essa è diretta conseguenza di quanto tale patrimonio venga percepito a livello sociale e, quindi, economico? Appare evidente che il voler costantemente destrutturare la società antica per far posto a strumenti globalizzanti e speculativi non può far altro che disarticolare l'intero sistema culturale e abbassare il grado di "sentimento" civico dei luoghi. Assistiamo ad una continua ricerca del "nuovo" basato non sull'esempio, ma sull'imitazione, senza alcun contenuto di lunga visione. Qualunque progetto che non abbia una visione di prospettiva è forzatamente destinato a morire e quindi ha la necessità di essere supportato da un sistema che, alcune volte, si limita al clientelismo di poco conto, pronto solo a intercettare questo o quel capitolato di finanziamento per la realizzazione di un qualcosa della durata di pochi mesi, senza alcuna consistenza strutturale. Ci troviamo di fronte ad una gestione del patrimonio che non guarda alla vera potenzialità dei beni che sono, come ci diciamo ormai da decenni, irriproducibili e indelocalizzabili, ma punta solo al paradosso di vivere quotidianamente nell'emergenza di riuscire a coprire la cura ordinaria. Si vive in un sistema dove spesso le Istituzioni pubbliche considerano la cultura non un mestiere a tutti gli effetti, ma un hobby romantico alla portata del volontario di turno, pronto a imparare due paroline e utile a non pagare uno stipendio in più.  Il Patrimonio culturale, che costituzionalmente è dello Stato, si perde poi in mille rivoli di competenze che ne disperdono le potenzialità, creando doppioni e sovrastrutture del tutto inutili. A questo quadro si aggiunge, poi, la mentalità secondo cui il mondo culturale non è un luogo lavorativo a tutti gli effetti. Tale mentalità è figlia di una volontà di modernizzazione, tipica degli anni '60/'70 che vedeva nell'industrializzazione la panacea del riscatto del passato, al seguito del "sogno americano", e che considerava tutto il patrimonio (culturale, artistico, naturale e tradizionale) come superabile e modificabile. Si è proceduto alla snaturalizzazione di interi sistemi culturali per emulare modelli basati sulle commistioni e "provocazioni" creando, di fatto, un vuoto e una crisi strutturale di fondo. Questo processo è comune anche ad altri Paesi e giustifica il motivo per cui solo Nazioni provenienti dall'Est o comunque legate alla cura della qualità civica e identitaria riescono a modulare un sistema capace di produrre economia della cultura. Dovremmo semplicemente riappropriarci delle nostre specificità, riappropriarci del genio che per secoli ha caratterizzato i nostri luoghi per permetterci di usare la cultura non come passatempo per professori in pensione, ma come strumento di crescita sociale, economica e civile delle nuove generazioni.

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